Noi Selton siamo fortunati ad avere amici dotati di super poteri, come Alessio d’Ellena che, oltre a formare parte della nostra famiglia, è specializzato in type design ed ha un lungo rapporto con gli oggetti creati da Bruno Munari.
La prima volta che ho avuto a che fare con gli occhiali paraluce di Munari (1955) è stato circa 15 anni fa. Durante il laboratorio di comunicazione visiva del primo anno di Disegno Industriale alla Sapienza di Roma. Gli occhiali Paraluce insieme ad un prospetto di multipli e sottomultipli dei formati Uni per la carta – ancora oggi attaccato all’anta dell’armadio nella camera che condividevo con mio fratello.
A conclusione di quel laboratorio posammo per una foto di gruppo: eravamo Una sessantina di ragazzi e ragazze. Tuttə indossavamo gli occhiali paraluce di Munari, realizzati a partire da un template che ci aveva fornito la docente di comunicazione visiva, Ines Paolucci. Il concetto dietro a questi occhiali è semplice: “un paraluce a 5 lire”. Una produzione a costo nullo, oggetto dalla vita breve. Una striscia di cartone sagomata. Una protezione minima ed economica per gli occhi. L’idea che si possa fare molto con poco. In un’articolo su Stile Industria n.5 del settembre 1955, Munari stesso descriveva questo progetto così: “[…] li vedremo presto negli stadi e sulle spiagge al posto delle vecchie visiere di cartone. Saranno bianchi o di differenti colori, a vari disegni, con profili e forme leggermente diverse per uomini e donne; li noteremo, dopo le partite di calcio, a migliaia per terra o nei cestini dei rifiuti assieme ai bicchierini ed ai ventagli di carta”. Oggi —forse— Munari avrebbe aggiunto a questa lista anche i concerti.
La seconda volta che ho incontrato gli occhiali di carta paraluce è stata quando ho avuto a che fare con Pietro, Marzia e Maurizio Corraini. Che con Munari hanno avuto un rapporto diretto, progettando tanti libri. Ho conosciuto Pietro nel 2010, all’Isia di Urbino, dove studiavo comunicazione visiva ed editoriale e da quell’incontro sono nati poi tanti progetti. Mi capita ancora spesso di entrare nello studio di Pietro o nelle librerie Corraini, trovare gli occhiali in esposizione e indossarli. È un oggetto iconico.
Nel film diretto da Ettore Scola, “Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)”, del 1970; Monica Vitti (Adelaide) cerca di nascondere le sue lacrime a Marcello Mastroianni (Oreste): lo fa indossando proprio questi occhiali “di fortuna” trovati in una rivista femminile. Il plot raconta di un una relazione a tre, estremamente tormentata, che Adelaide non riesce a risolvere poiché ama ambedue gli uomini.
— “E’ un inserto per le lettrici, vedi: occhiali da sole di semplicità essenziale, ideati da un famoso design che si è ispirato agli occhiali polinesiani. Però qui non ci si vede niente...”
— “…E bè ma scusa, se non li apri!”
L’ultima volta che ho indossato gli occhiali paraluce di Munari è stato quando ho presentato i Selton a Pietro. Da quando questo ménage à trois musicale brasiliano composto da Dudù, Daniel e Ramiro ha iniziato a flirtare con la città di Milano e le sue icone culturali —passando per Jannacci, Cochi e Renato— era solo questione di tempo, prima che arrivassero a guardare attraverso gli occhiali paraluce. Proprio come pensato da Munari stesso, personalizzandoli e rendendoli disponibili nel loro vinile, i Selton hanno interpretato perfettamente il progetto originale. Trovo spiazzante e interessante trovare in un vinile, che è fatto per le orecchie, un dispositivo che invece è dedicato agli occhi. Mi viene da immaginare la fine di ogni concerto dei Selton: una grande foto di gruppo collettiva. Ognunə che indossa gli occhiali paraluce. Ognunə che guarda il mondo con occhi diversi, ascoltando la stessa melodia.
Alessio D’Ellena
Type designer e graphic designer. Si occupa di curare e insegnare nel campo della tipografia e del design. Il suo ambito di indagine comprende i processi di scrittura, il design dei caratteri e la tipografia come pratica *non dogmatica*: stress delle forme, stretch dei concetti, corruzione delle regole e uso improprio degli strumenti. Concepisce la tipografia come *sistema* e medium concentrandosi su: processi, condizioni spazio/tempo e contesti.